L’INTERVENTO PSICOLOGICO CLINICO IN ONCOLOGIA

La psico-oncologia, oggi intesa come disciplina scientifica, ha una storia ormai di oltre cinquanta anni; infatti, é nel decennio 1950-1960 che cominciano una serie di iniziative da parte delle discipline della salute mentale e della psicosomatica rivolte a comprendere meglio i fattori psicologici della malattia.

A tal proposito, ricordiamo l’attivazione di un servizio nel 1950 da parte dello psichiatra Arthur Suherland presso il Memorial Sloan- Kettering Cancer Center di New York, il lavoro di Elisabeth Kübler-Ross sulle reazioni psicologiche del paziente con cancro in fase terminale, lo sviluppo di servizi analoghi, nel 1967, da parte di Cicely Saunders, a Londra, presso il St. Cristopher Hospice.

È a partire dagli inizi degli anni ottanta che la Psiconcologia prenderà poi corpo diversificandosi in diversi ambiti.

La fondazione di società scientifiche a metà del 1980 nei singoli Paesi Europei (Francia, Germania, Italia, Regno Unito), Nord Americani (Canada e USA) e a livello internazionale (International Psycho-Oncology Society www.ipos-society.org) costituisce un momento storicamente importante.

L’obiettivo della psiconcologia diviene, infatti, promuovere il benessere psicologico e sociale dei pazienti e delle loro famiglie durante la malattia.

In Italia la Società Italiana di Psiconcologia (SIPO) (www.siponazionale.it), fondata nel 1985, rappresenta la società scientifica di riferimento a livello nazionale del nostro Paese.

La SIPO “sorge come associazione integrante le figure professionali psicologiche, psichiatriche e oncologiche e persegue gli obiettivi comuni della psiconcologia attraverso l’attivazione di un mutuo scambio tra i gruppi italiani che da anni si occupano della cura e dell’assistenza ai malati neoplastici” (statuto SIPO). È, inoltre, impegnata nel costante dialogo e confronto con le altre società medico-scientifiche affinchè gli aspetti psiconcologici vengano presi in considerazione nelle attività didattico-formative, nei progetti di ricerca e nella formazione della figura professionale dello psiconcologo all’interno dei servizi.

È presente a livello regionale attraverso 14 sezioni che hanno il compito di diffondere la cultura psiconcologica nei contesti istituzionali, sanitari e di ricerca delle diverse regioni del nostro Paese. La SIPO ha pubblicato dieci anni fa un sintetico manuale “ Standard, Opzioni e Raccomandazioni per una buona pratica Psico-Oncologica”, per sensibilizzare le istituzioni rispetto ai bisogni psicosociali dei pazienti, dei familiari e, infine, per individuare alcuni percorsi formativi per le diverse figure professionali. Espressione della Società è il primo trattato italiano di Psiconcologia, edito da Masson nel 2002 e il Giornale Italiano di Psiconcologia, organo ufficiale della Società e strumento scientifico rivolto agli operatori del settore, fondato nel 1999.

Il vissuto del paziente in fase terminale

Da un punto di vista psicologico il vissuto del malato può essere descritto come una graduale presa di coscienza, un adattamento alla difficile e nuova condizione, un’accettazione della realtà incombente che dipende da molteplici fattori (età, caratteristiche di personalità, caratteristiche della malattia, significato più o meno consapevole che le attribuisce): tra questi rimangono fondamentali le relazioni, il tipo di relazioni su cui il malato può contare (Sandrin, 1994).

I bisogni del paziente in questa fase sono molteplici e, secondo uno studio italiano condotto su un elevato numero di pazienti (Morasso, 1998), si possono riconoscere due categorie fondamentali: bisogni fisiologici-assistenziali e bisogni emotivi-relazionali.

Tra i primi possono essere compresi il bisogno di:

  • Controllare i sintomi;
  • Controllare la qualità dell’alimentazione e del sonno;
  • Trattare le emergenze;
  • Assistenza per le cure personali;
  • Sostegno economico.

Nel secondo gruppo rientrano il bisogno di:

  • Bisogno di non essere abbandonato (isolato);
  • Bisogno di mantenere i contatti con i familiari, con gli amici, con i curanti;
  • Bisogno di mantenere l’autostima ed il rispetto della dignità del corpo;
  • Bisogno di vicinanza emotiva;
  • Bisogno di decidere sulle terapie, dove stare, come essere trattato, bisogno di fare scelte di natura economica e patrimoniale.

Tra i Bisogni dei familiari rientrano:

  • Bisogno di essere rassicurati sul fatto che il proprio familiare non soffra;
  • Bisogno di sentirsi utili;
  • Bisogno di essere informati;
  • Bisogno di esprimere le proprie emozioni;
  • Bisogno di sentirsi ascoltati e sostenuti dall’èquipe curante;
  • Bisogno di sentire la vicinanza reciproca.

Sia gli studi che l’esperienza clinica sottolineano come le paure siano le emozioni principali del paziente in fase terminale: paure molteplici e diverse, capaci di provocare intense reazioni difensive. I malati si difendono, infatti, dalla paura dell’ignoto, di quello che può esserci oltre, dalla paura della solitudine, dell’isolamento e dell’abbandono, dalla paura di perdere il proprio corpo, la propria integrità, autonomia e identità, dalla paura di perdere l’autocontrollo, di essere in balia degli altri, dalla paura del dolore e della sofferenza, delle cure e dei loro effetti collaterali, dalla paura di non riuscire a dare un senso completo alla propria vita, di essere sommersi dall’angoscia finale.

I meccanismi di difesa utilizzati sono pertanto:

  • Ritiro
  • Diniego
  • Isolamento
  • Rimozione
  • Annullamento
  • Acting out
  • Repressione
  • Razionalizzazione
  • Spostamento
  • Controllo
  • Sublimazione

Secondo gli studi di Elizabeth Kübler Ross (1976), inoltre, si riconoscono i seguenti stadi:

  • Stato di shock
  • Reazione di rabbia
  • Stato del mercanteggiamento
  • Fase della depressione per arrivare, poi, alla possibilità da parte del malato di accettare la propria morte.

Proprio a tale finalità deve tendere l’agire degli operatori, pur nella diversità di ruoli e competenze, affinché il malato possa essere aiutato ad (nell’) arrivare all’accettazione della propria morte.

L’accompagnamento

Per accompagnamento si intende impegno di non abbandono e impegno alla comunicazione, comunicazione intesa come “spazio psichico”.

Bisogna esser-ci (Gerfield, 1987): avere la capacità di stabilire una relazione significativa con l’altro per comprendere i suoi vissuti.

Bisogna recuperare la dimensione etimologica dell’essere con l’altro nel sentire (cum patior) ovvero, “accogliere la sofferenza, l’angoscia degli altri, donando poi, a propria volta, tutta la fiducia e la serenità a cui si può attingere dentro di sé. Si tratta, con questa partecipazione così semplice, della sofferenza dell’altro, di stare con lui, di non lasciarlo solo” (M. De Hennezel,1998; Rinpoche 1994; Ostaseski, 2006).

Lo psicologo, con una formazione di “psiconcologia”, inoltre, deve saper accompagnare sia l’equipe curante specialmente in questioni di cruciale importanza, come il passaggio dalla cura attiva a quella palliativa, nel saper comunicare la prognosi, la gestione delle informazioni che la famiglia possiede, ponendosi, nel primo caso, come un facilitatore della comunicazione e, nel secondo caso, aiutando i familiari, non solo a vivere il proprio dolore o gestire i propri vissuti, ma anche ad accompagnare a loro volta il paziente stesso.

Lo psiconcologo, dunque, garantisce un affiancamento costante ai membri dell’equipe, offrendo una formazione continua, uno spazio per la comprensione dei vissuti emozionali, una facilitazione nel processo comunicativo tra operatore-paziente/famiglia e tra gli stessi operatori.

Per quel che attiene in particolare alla fase terminale, invece, lo psicologo si occupa di:

  • supporto psicologico agli operatori
  • formazione alla comunicazione e alla relazione per gli operatori
  • riunione d’equipe per la discussione dei casi
  • facilitazione della comunicazione nella relazione tra operatore-paziente-famiglia

Si riconoscono, infatti, i seguenti bisogni dell’èquipe curante:

  • Bisogno di sentire la collaborazione e la fiducia da parte del paziente e dei suoi familiari
  • Bisogno di gestire adeguatamente ed efficacemente le situazioni che si presentano

In conclusione, lo psicologo accoglie e raccoglie la narrazione della storia familiare, individuale nonché, la storia della malattia; facilita l’elaborazione dei vissuti relativi alla malattia; accoglie i bisogni e i disagi non espressi che ostacolano la comunicazione all’interno della famiglia e tra la famiglia e l’èquipe curante; facilita il processo di comunicazione tra il paziente e la sua famiglia; fornisce supporto in situazioni di crisi e nell’elaborazione del lutto.

 

“La vita è un insieme di avvenimenti di cui l’ultimo potrebbe anche cambiare il senso di tutto l’insieme” (Italo Calvino)

 

Dott. Cristiano Zamprioli

Dott.ssa Rosanna Mansueto